“A Kef ci sono Imam che invitano i giovani ad andare per il jihad dicendo tante belle cose sulla vita terrena e non. Conosco delle persone che adesso sono in Iraq con una casa, una moglie, dei figli, ed uno stipendio. Che vuoi di più?” (di Nino Orto) “E’ tutto un grande gioco politico”. Wafiq, la guida, ha il dono della sintesi quando risponde alla incredulità di fronte la piacevole atmosfera di Kef, vivace cittadina arroccata su una collina a settecento metri di altezza, circa quaranta chilometri ad Est dalla frontiera con l’Algeria. Esiste infatti una notevole discrepanza tra la linea, seppur sottile, tracciata dall’autorità centrale di Tunisi, un messaggio che sottende ad una situazione instabile e potenzialmente pericolosa, e quella che è la realtà effettiva sul campo. Lo sanno bene gli abitanti, che a partire dalla rivoluzione del 2011 hanno visto drasticamente diminuire gli introiti derivanti dal turismo, con hotel, ristoranti, un intero centro storico svuotato di ogni attività. Nonostante la bellezza dei monumenti e del panorama intorno la città, pochissimi stranieri e nessun turista.
Come già visto in altre parti dell’interno della Tunisia, anche qui è fortissimo il fenomeno del contrabbando. Storicamente parte integrante della cultura dell’area e tollerato durante la dittatura oggi, a causa della stretta sulla sicurezza e l’ulteriore declino del turismo, è ormai diventato unico mezzo di sussistenza per molte famiglie della zona. Gassem, un signore sulla cinquantina, occhi simpatici nascosti dagli occhiali da sole ed una fronte piena di rughe, è un contrabbandiere. “Faccio questo mestiere perché ho bisogno di mangiare, non ho altra scelta se voglio mantenere la mia famiglia. Con il governo che c’era prima della rivoluzione era più facile lavorare, bastava pagare la multa per riavere la macchina e si viveva bene, l’importante era non commerciare armi e droga. Non voglio dire che preferivo il dittatore ma ora, con questi jihadisti, tutto è molto più difficile”.
Il fenomeno del contrabbando è stato durante gli anni del dittatore tunisino Ben Ali l’unica possibilità di guadagno per la popolazione, in una regione mai sviluppata a pieno nonostante le potenzialità agricole, turistiche, e industriali. A tre anni dalla rivoluzione, ancora oggi, appare infatti assolutamente ingiustificata la mancanza di infrastrutture capaci di rilanciare l’economia della zona, in una città che da sempre manifesta una delle forme associative e imprenditoriali più attive del paese. ”Vorrei solo un futuro migliore per me e la mia famiglia, se ci fosse occupazione abbandonerei subito questo mestiere. El-Kef ha bisogno che il governo prendi in mano la situazione ed implementi la crescita della zona, si sono dimenticati di noi da tanto, troppo tempo. Dobbiamo lavorare duro se vogliamo vivere: lo sviluppo da Ben Alì ad oggi è rimasto sempre concentrato nelle città della costa” ricorda in maniera minuziosa, come ad una platea.
Critiche che vengono espresse da più parti e che sono ormai entrate nel pensiero della gente comune. Avvalorate anche dai fatti. Nonostante il governatorato di Kef rimanga una delle regioni maggiormente predisposte alla creazione di infrastrutture per un moderno e diversificato centro agricolo, integrato da una zona industriale che si appoggi su settori promettenti della regione, come le industrie alimentari, miniere, o fabbriche per il legname, poco o nulla è stato fatto dal governo centrale. Non è un caso che Trabelsi Abdekader, il governatore della regione di Kef, stia da tempo cercando di trarre vantaggio dalla sua vicinanza con l’Algeria per cercare di attirare investimenti per la promozione di grandi catene di Free Shops, la creazione di una zona franca tra i due paesi che favorisca il turismo, nonché la costruzione di una clinica e di una fabbrica a capitale serbo-tunisino capace di creare tra i 700 e i 1000 posti di lavoro. Progetti ambiziosi, che dicono a Tunisi fanno storcere il naso a molti.
E non sono pochi quelli che collegano il problema del jihadismo con la strozzatura economica della regione. Un commerciante di Kef che non vuole dichiarare il proprio nome rincara addirittura la dose: “subito dopo la rivoluzione, le forze vicino all’ex-regime, hanno fin da subito manovrato contro il nuovo governo con numerosi sit-in di protesta e sono stati coinvolti nei disordini che sono scoppiati in città. Molte persone qui hanno cominciato a parlare di terrorismo, di ritorno del vecchio dittatore, di maggiore presenza della polizia. Ma qui non c’era nessun problema di terrorismo. La stessa Kef è da sempre una roccaforte laica e dei movimenti di sinistra!”
Eppure, nonostante l’incredulità e la sfiducia degli abitanti, tra ottobre e novembre 2014, in poco meno di tre settimane, nella zona ci sono stati due differenti attacchi da parte dei jihadisti, uno dei quali ha coinvolto un autobus militare a pochi chilometri da Kef, che ha provocato la morte di cinque soldati e il ferimento di diversi familiari dei militari. E se il problema dei jihadisti non viene percepito come tale è senza dubbio insindacabile il fatto che cellule di combattenti islamici siano infiltrate nei promontori che costellano la zona fino al confine con l’Algeria. E se per la Guardia Nazionale e la Polizia controllare e monitorare le principali arterie stradali attraverso check-point e presidi si rivela una operazione abbastanza semplice, lo stesso non può dirsi nel controllo delle catene montuose dove sono asserragliati tali gruppi.
“Non abbiamo lavoro e nessuna speranza per il futuro, siamo stretti tra il pensiero jihadista, le angherie della Polizia, o il contrabbando”. Dopo la rivoluzione ci sono più jihadisti perché le persone vorrebbero parlare, ma sono zittiti dalle autorità. Per molti il futuro è scegliere tra la morte o la prigione” Afhed ha appena 19 anni ma è un ragazzo sveglio con grandi occhi disillusi. E’ chiaro e coraggioso nelle sue affermazioni quando lo incontro in uno spiazzo accanto ad una moschea. “Qui molti giovani sono partiti per combattere in Siria ed Iraq a causa dell’assenza di qualsiasi prospettiva futura, anche alcuni miei amici sono andati lì e sono morti da martiri. Le loro famiglie ancora non capiscono il perché lo abbiano fatto. Io personalmente non sono convinto, ma li capisco. A Kef ci sono Imam che invitano i giovani ad andare per il jihad dicendo tante belle cose sulla vita terrena e non. Conosco delle persone che adesso sono in Iraq con una casa, una moglie, dei figli, ed uno stipendio. Che vuoi di più?”.