(Photo Credit: UN/Shareef Sarhan)
Di Alessio Tricani
La fragile tregua si sgretola tra fazioni armate, crisi umanitaria e controllo autoritario. Nel cuore dell’enclave palestinese si ridisegna il concetto stesso di sicurezza e di Stato.
“La gente normale non vuole vivere all’inferno.” Queste le parole della leader dei coloni israeliani, Daniella Weiss, pronunciate durante un’intervista andata in onda sulla BBC. Una frase che, oltre la retorica, descrive perfettamente ciò che oggi possiamo definire “il caos modellato”, ovvero un equilibrio instabile in cui tutto si distrugge e si ricrea, ridefinendo continuamente poteri, alleanze e obiettivi. Proprio lo stesso caos su cui l’attuale tregua poggia, nonostante la fragilità intrinseca.
Gaza resta infatti in una crisi umanitaria profonda e per certi versi irreversibile, con infrastrutture distrutte e centinaia di migliaia di persone ancora senza nessun posto dove andare. Situazione che rende ogni accordo futuro fragile e temporaneo.
Sul terreno, la realtà è frammentata, con micro-fazioni armate in lotta tra di loro, dinamiche già note ma oggi più evidenti che mai. Piccole milizie che combattono per spazi di potere e sopravvivenza da una parte, Hamas che tenta di mantenere un controllo assoluto del territorio dall’altra. Tra questi figurano le Forze Popolari di Yasser Abu Shabab -accusate di saccheggi – e il gruppo salafita-jihadista Jaysh al-Ummah, di ispirazione qaedista e apertamente ostile a Hamas. A cui si aggiunge, il Palestinian Islamic Jihad (PIJ), seconda forza nella Striscia, che continua a perseguire una propria agenda autonoma e più radicale.
In un intreccio di rivalità e alleanze mutevoli, l’Autorità Palestinese appare delegittimata, incapace di esercitare qualsiasi influenza. Le proposte europee di riforma istituzionale, promosse anche da Ursula von der Leyen, sembrano lontane dalla realtà di una Cisgiordania che scricchiola ogni giorno di più.
Tutto questo rientra in quello che gli studiosi definiscono “il dilemma della sicurezza”: lo Stato – o ciò che ne resta- deve garantire la sicurezza dei propri cittadini, ma il suo stesso apparato armato può trasformarsi nella minaccia principale. Nel caso palestinese, questo equilibrio diventa quasi impossibile: la sicurezza di uno implica inevitabilmente l’insicurezza dell’altro.
Così, il rischio di una guerra civile all’interno di Gaza appare ogni giorno più concreto. E anche se non dovesse esplodere apertamente, la sola possibilità basta a minare la tenuta del cessate il fuoco. Hamas, nel frattempo, consolida la propria autorità. Le recenti esecuzioni pubbliche di presunti collaborazionisti non sono solo punizioni: sono dimostrazioni di ordine e potere. Un messaggio chiaro su chi gestirà, anche sotto nuove forme, il futuro dell’enclave.
Intanto, le faide tra clan rivali hanno già causato decine di vittime, mentre gli aiuti umanitari arrivano a singhiozzo. Dei 600 camion giornalieri previsti dall’accordo, ne entra appena la metà attraverso Rafah. I magazzini di stoccaggio, come quello di Daraj a nord, o quelli di Musadar e Zawayda, funzionano solo parzialmente.
Tra la fame, il controllo e la paura, la vita dei gazawi scorre ai margini dell’inferno evocato da Weiss. E mentre il caos “modellato” influisce profondamente sulle condizioni socio-economiche della Striscia, non è astratto pensare che tali fattori possano spingere parte della popolazione ad una scelta estrema: quella di andarsene.
