La Global Sumud Flotilla si è presentata come missione umanitaria per rompere il blocco su Gaza. Ma sotto la superficie emergono strutture organizzative opache, legami con reti religiose e politiche e un nodo malese che ne amplifica l’impatto mediatico e geopolitico.
(Photo Credit: Alessio Tricani)
Nell’estate del 2025, la Global Resilience Flotilla – conosciuta anche come Global Sumud Flotilla – è salpata dal Mediterraneo con una promessa solenne: rompere l’assedio navale israeliano su Gaza e portare aiuti umanitari a una popolazione stremata da mesi di guerra. Oltre quaranta imbarcazioni, più di cinquecento volontari provenienti da quarantaquattro paesi, un mare di bandiere e slogan di pace. Sulla carta, un gesto di solidarietà. Ma sulle onde del Mediterraneo quello che si è delineato è stato ben altro: un’operazione complessa, basata su una rete intricata di attori politici, religiosi e comunicativi che ne ridefiniscono i contorni.
La flotta, la più imponente mai organizzata da civili, ha visto la partenza di navi da Genova, Barcellona, Tunisi e Catania, cariche di medicine, generatori e viveri dirette verso la Striscia di Gaza. Ad uno sguardo più ravvicinato, tuttavia, l’operazione appariva tutt’altro che spontanea. Dietro la parvenza di solidarietà, si intravederebbe una struttura multilivello.
Un asse civile, guidato da movimenti internazionali come la Global March to Gaza e la Freedom Flotilla Coalition, responsabile della comunicazione e della logistica. Un asse politico, animato da figure esperte di campagne mediatiche e lobbying, tra cui Saif Abu Keshk – portavoce storico della marcia verso Gaza – e Paris Laftsis, attivista greco vicino ai movimenti BDS. Infine, un asse religioso, sostenuto da reti islamiche nordafricane e asiatiche che danno alla missione una legittimità morale e spirituale, evocando la “resistenza giusta” e la difesa della comunità musulmana globale.
Tra i protagonisti del mondo pro-palestinese figura Saif Abu Keshk, attivo in posizioni di rilievo in diverse organizzazioni. È chairman della International Coalition against the Israeli Occupation, portavoce della Global March to Gaza e coordinatore della Global Sumud Flotilla. Nel gennaio 2025, Abu Keshk ha fondato la Global Coalition for Palestine (Saned) in cui elenca connessioni dirette con diverse iniziative: il Soumoud Convoy, la March to Gaza, la Freedom Flotilla Coalition, la Women’s Boat to Gaza e la campagna “Stop Gaza Starvation”.
In giugno 2025, le autorità egiziane hanno arrestato Abu Keshk, responsabile dell’organizzazione della delegazione March to Gaza; nello stesso periodo è stato trattenuto anche Paris Laftsis. Tutte le organizzazioni March to Gaza, compresa quella in Grecia, hanno chiesto il suo rilascio. Pur non essendoci dati definitivi su legami diretti con Laftsis, Abu Keshk, come coordinatore capo di March to Gaza, appare strettamente collegato alle attività dell’organizzazione in Grecia, secondo le comunicazioni dei loro canali social.
Ma è sopratutto su Yahia Sarri, vice-presidente dell’Associazione degli Ulema Musulmani d’Algeria e presidente della Commissione sicurezza dell’associazione, che si concentrerebbero le connessioni più importanti tra la Global Sumud Flottilla e movimenti religiosi transnazionali. Sarri serve anche come chairman dell’Algerian Initiative to Support Palestine ed è considerato una delle figure centrali che hanno avviato e guidato il “Sumud convoy” – un convoglio terrestre dall’Algeria volto a dimostrare solidarietà popolare verso i residenti di Gaza e a trasformare il sostegno alla Palestina in azione concreta sul terreno. Il convoglio Sumud fa parte della Global March to Gaza, e mentre Abu Keshk era tra gli organizzatori globali, Sarri ha guidato la componente algerina.
Molti siti di informazione egiziani e analisti militari hanno sostenuto che i Fratelli Musulmani fossero dietro il convoglio Sumud guidato da Sarri. Il generale di brigata in pensione Hatem Atif, ex ufficiale senior dell’esercito egiziano, ha avvertito che, sebbene il convoglio apparisse come un’attività civile spontanea esprimente solidarietà con Gaza, in realtà era pianificata e orchestrata dai Fratelli Musulmani. Atif, nella stessa intervista al network, ha anche evidenziato i legami tra Abu Keshk e Sarri, notando che Abu Keshk funge da rappresentante della Palestinian youth network in Spain, un network sotto l’Union of Muslim Councils in Europe che unisce organizzazioni islamiche di supporto ai Fratelli Musulmani in tutto il continente. Atif ha ulteriormente sottolineato il background ideologico di Sarri, definendolo uno dei leader dell’Association of Muslim Scholars, l’ala storica dei Fratelli Musulmani in Algeria. Sarri sostiene un’ideologia Salafo-Jihadista e in passato ha dichiarato che “le fatwa di Daesh erano corrette ma la loro applicazione era sbagliata”, espressione del suo orientamento ideologico.
Attorno a loro si muove un mosaico di ONG, campagne digitali e associazioni caritative, in un equilibrio nebuloso tra impegno civile e militanza politica e religiosa.
Ma la vera novità del Sumud è arrivata da Est. In Malesia emergerebbe infatti uno dei nodi più influenti e controversi della rete. Qui opera la Cinta Gaza Malaysia (CGM), fondata da Mohammed Nader al-Nouri, figura carismatica e promotore della cosiddetta Sumud Nusantara – la filiale sud-est asiatica della Global Sumud Flotilla (GSF), e che a sua volta ha ricevuto fondi dalla MAPIM (Malaysian Consultative Council of Islamic Organisations), Cinta Syria Malaysia e dalla My Aqsa Defenders. Queste alleanze hanno contribuito alla raccolta di fondi e alla logistica delle missioni umanitarie. La sua rete avrebbe fornito supporto logistico, comunicativo e finanziario alla sezione asiatica della Flotilla, presentandosi come ponte tra il Sud-Est asiatico e la causa palestinese.
Dietro l’iniziativa malese emergono connessioni politiche di primo piano. Il progetto Sumud Nusantara, ha anche ricevuto il sostegno diretto del Primo Ministro Anwar Ibrahim attraverso le organizzazioni precedentemente elencate, di fatto sostenendo direttamente la sezione asiatica della Sumud Flottilla. Non una novità. considerato come il premier malese abbia fatto della solidarietà verso Gaza e del supporto ad Hamas un pilastro della politica estera del suo governo. Vicino al primo ministro, opera anche la Palestinian Cultural Organisation Malaysia (PCOM), definita da un report del International Institute for Counter-Terrorism come una “ambasciata non ufficiale di Hamas” nel Paese.
È in questo intreccio che il Sumud assume la sua forma più ambigua. Non solo una flotta di aiuti, ma un ecosistema di influenza transnazionale, dove ONG, governi e movimenti religiosi condividono obiettivi e retoriche. La retorica della resilienza diventa così un linguaggio politico capace di mobilitare consensi e oscurare i confini tra solidarietà e strategia geopolitica.
La traversata verso Gaza non è stata priva di tensioni. Alcune navi sarebbero state colpite da droni e ordigni incendiari in acque internazionali – episodi che non hanno causato vittime ma hanno alimentato il clima di scontro. A metà settembre, la marina israeliana ha intercettato il convoglio a circa cinquanta miglia dalla costa, arrestando 473 attivisti, poi trasferiti nel carcere di Ketziot nel Negev. Israele ha accusato apertamente la Flotilla di “collaborare con Hamas” e di agire “sotto copertura umanitaria”. Le organizzazioni per i diritti umani, dall’ONU ad Amnesty International, hanno replicato denunciando “violazioni del diritto internazionale” e “aggressioni contro civili disarmati”.
Guardando a ritroso, la Global Resilience Flotilla appare però come molto più di un convoglio umanitario. È un’operazione che unisce impegno civile, narrazione religiosa e pressione diplomatica. Per alcuni è il segno di una società civile globale che non si arrende davanti all’ingiustizia; per altri, un caso esemplare di strumentalizzazione politica dell’umanitarismo, dove la bandiera della solidarietà copre un gioco di alleanze e messaggi mirati.
La sumud, resilienza eretta a mito redentivo, diventa un linguaggio di legittimazione, capace di giustificare strategie e calcoli geopolitici. Dietro l’apparente spontaneità dell’impegno civile si celerebbe una regia complessa, dove ONG, movimenti religiosi, Stati e media convergono in un’operazione di comunicazione più che di aiuto concreto.
E allora sorge la domanda inevitabile:
Dietro la macchina simbolica della Flotilla, dietro la retorica della sumud e l’iconografia della resistenza, c’era forse anche l’ombra di Hamas?
Non tanto come regista visibile, ma come presenza tattica, capace di orientare linguaggi, alleanze e obiettivi?
In questo senso, la Flotilla non testimonia tanto la forza della società civile, quanto la sua permeabilità alle strategie dei poteri che dice di contrastare. La sumud diventa un marchio, una parola-chiave ideologica che legittima un’azione politica travestita da missione umanitaria. Dietro il vessillo della resilienza, la solidarietà si fa performance e l’umanitarismo si trasforma in strumento – o alibi – di un gioco geopolitico in cui i confini tra etica e propaganda si dissolvono.



