Il grande piano internazionale per la ricostruzione della Striscia prometteva una transizione ordinata verso stabilità e governance. Ma sul terreno le condizioni non esistono: attori esitanti, fazioni armate ancora attive e una realtà che continua a smentire ogni previsione diplomatica.
(Photo Credit/Nino Orto)
Il grande piano internazionale per la ricostruzione e la stabilizzazione di Gaza era nato come una promessa di ordine dopo il caos. Una roadmap precisa, quasi chirurgica, con una tregua graduale, lo smantellamento delle infrastrutture militari di Hamas, l’arrivo di una forza multinazionale, la ricostruzione materiale e istituzionale, il ritorno della vita civile. Per mesi se n’è parlato come dell’inizio di una nuova fase storica. Doveva essere la prima vera architettura post-bellica capace di trasformare la Striscia in un territorio governabile, sicuro, ricostruito. Oggi, invece, quel progetto appare come una costruzione sospesa, trattenuta da fili troppo sottili per reggerne il peso.
Sulle pagine dei documenti ufficiali, il piano sembra ancora intatto e pronto ad essere implementato. Fase dopo fase, tutto è ordinato. Una sequenza che quasi rassicura. Ma è sufficiente posare lo sguardo sulla realtà quotidiana per accorgersi che le condizioni necessarie non ci sono. Le aree che avrebbero dovuto rimanere sgombre tornano a popolarsi di miliziani di Hamas, i clan locali si riorganizzano ognuno con la propria sfera di influenza, le strutture di controllo che dovevano sparire ricompaiono nella forma che la Striscia conosce da decenni. Il vuoto di potere che gli architetti del progetto di ricostruzione a Gaza immaginavano di riempire con una nuova amministrazione non si è mai concretizzato. E in un territorio come Gaza, quando si crea un varco, qualcosa -o qualcuno- lo colma immediatamente.
Il fulcro di tutto, il passaggio che dovrebbe aprire la strada alla ricostruzione, è l’ingresso di una forza multinazionale. Ma è proprio qui che il castello inizia a scricchiolare. Gli Stati arabi chiamati a partecipare sollevano dubbi, timori, condizioni che si intrecciano e si escludono a vicenda. Ciascun Paese guarda Gaza da una prospettiva diversa, con traumi, interessi e memorie storiche che non coincidono. Nessuno vuole assumersi la responsabilità di un impegno lungo, potenzialmente impopolare e rischioso. Così, la forza che doveva incarnare la stabilità diventa un concetto astratto: una presenza ideale che nessuno è pronto a trasformare in realtà.
L’altra colonna del progetto, una struttura civile palestinese temporanea, neutrale e tecnica, vive principalmente nei documenti ufficiali. Sulla carta, sarebbe una transizione ordinata verso una governance stabile. Sul terreno, sarebbe un corpo fragile, privo di una base reale, costretto a confrontarsi con dinamiche tribali, reti sociali complesse e soggetti armati che non hanno alcuna intenzione di cedere spazi. In un territorio dove la legittimità nasce da radici profonde, un’amministrazione esterna, senza radicamento, rischierebbe di rimanere un’entità fantasma.
Ogni volta che si prova a far avanzare il piano, la realtà interviene. Notizie di nuovi scontri, tensioni ai valichi, riattivazione di cellule armate, instabilità che riaffiora.Il progetto richiede calma, coordinamento, continuità. Ma Gaza, nelle condizioni attuali, difficilmente concede più di quarantotto ore senza che accada qualcosa che rimetta tutto in discussione. E così, riunione dopo riunione, il processo rimane impigliato tra urgenze di sicurezza e mancanza di condizioni politiche.
All’inizio, la diplomazia internazionale aveva accompagnato il piano con un cauto entusiasmo. Oggi, nelle parole dei delegati e dei negoziatori si avverte una stanchezza crescente. Le formule si ammorbidiscono, diventano più lente. La promessa di un’imminente “fase due” si dissolve in un generico invito alla pazienza. È come osservare un motore che gira al minimo, senza slancio, in attesa di una spinta che nessuno sembra in grado di dare.
Le valutazioni più realistiche convergono su uno scenario difficile da accettare ma sempre più concreto. Ovvero che l’esercito israeliano potrebbe rimanere lungo le linee di controllo senza avanzare né ritirarsi completamente. Le fazioni armate a Gaza continueranno a riorganizzarsi nelle aree lasciate sguarnite e si potrebbe andare verso una situazione di controllo da parte di Tel Aviv sul modello utilizzato in West Bank. La ricostruzione nel frattempo rimarrà bloccata, o sarà limitata al minimo indispensabile, mentre la governance civile potrebbe rimanere un progetto in potenza, ma non un’istituzione in grado di produrre cambiamenti reali.
In tutto questo la creazione di una forza multinazionale in grado di pacificare Gaza, ovvero il cuore pulsante del piano, potrebbe non vedere mai la luce. Uno status quo non voluto, non progettato, ma generato dalla somma delle paure e dell’immobilismo di tutti gli attori coinvolti.
Il piano per Gaza non è stato archiviato. Esiste ancora, appoggiato su tavoli diplomatici, descritto in presentazioni eleganti e in dossier dettagliati. Ma per funzionare ha bisogno di un’altra realtà meno instabile, meno frammentata, e soprattutto meno imprevedibile.
Finché quella realtà non si presenterà, il grande progetto resterà sospeso. Non fallito nè dimenticato: semplicemente impossibile da applicare nella realtà di oggi, in una Gaza che continua a muoversi secondo logiche che nessuna roadmap riesce ancora a incasellare.


