Il governo tunisino non riesce ancora ad avere il pieno controllo del territorio e se di giorno la situazione è relativamente calma, di notte tutto cambia, con la maggior parte della zona che diventa terra di contrabbandieri e combattenti islamici. (di Nino Orto) Si mormora che a Kasserine la gente abbia due vite: una diurna e una notturna. Proprio come il posto dove vivono. La Kasserine delle due anime. Il Giano bifronte di una rivoluzione che stenta ad evolversi. Da una parte la città dell’anarchia, del contrabbando, del terrorismo islamico. Dall’altra la città del colore, della calda ospitalità araba, della speranza. Solo inoltrandosi in essa è possibile capire quanto complessa sia la realtà dietro la rivoluzione che ha scatenato la più grande ribellione popolare nelle storia delle nazioni arabe. Contraddizioni che si avvertono camminando per le vie del centro, osservando i numerosi caffè affollati da giovani che fumano narghilè e bevono thè alla menta, immergendosi nella vivace folla di studenti di ritorno da scuola, evitando gli sguardi interrogativi dei vecchi. Quello che colpisce è il colore. Kasserine è letteralmente “invasa” da murales, slogan politici, religiosi, di street-art. Camera di decompressione di una generazione di giovani senza nessuna reale speranza per il futuro. Rimugino su quanto sia sorprendente questo luogo di frontiera. Stritolata da una guerra silenziosa condotta dal governo tunisino contro i jihadisti. Messa in ginocchio dalle conseguenze della rivoluzione che hanno azzerato il turismo e le fabbriche. Ma con una gioventù ancora capace di colore e speranza.
“Kasserine era una città viva, piena di turisti e di fabbriche. Dopo la rivoluzione tutto è cambiato e gli investimenti stranieri ed i turisti sono scappati senza più ritornare” mi confida Chabaan Zaki, dipendente nella pubblica amministrazione, profilo di quarantenne energico e sicuro delle reali necessità della propria comunità. “Prima della rivoluzione il fenomeno del contrabbando era minimo e non sapevamo neppure dell’esistenza di questi gruppi islamici. Ora tutto è cambiato e dal governo non è arrivato ad oggi nessun aiuto”. E’ disilluso quando racconta di come il piano di investimenti da 400 milioni di euro promesso dal governo del partito islamico Nahda non si sia mai realizzato. Al contrario, le principali industrie presenti in città hanno ormai chiuso definitivamente i battenti. “Prima c’era una fabbrica della Benetton che dava lavoro a più di tremila famiglie” commenta amaramente Chaaban, “ora ci restano solo i martiri della rivoluzione, i giovani disoccupati, e gli jihadisti di Chaambi”.
Il governo tunisino non riesce ancora ad avere il pieno controllo del territorio e se di giorno la situazione è relativamente calma, di notte tutto cambia, con la maggior parte della zona che diventa terra di contrabbandieri e combattenti islamici. A partire dal 2011, dopo la caduta del dittatore e l’ascesa al potere di Nahda, c’è stato un clamoroso peggioramento della sicurezza, successivamente sfociato nella “conquista” del monte Chaambi da parte dei gruppi jihadisti. Incastonato tra una serie di colline, il promontorio è il luogo perfetto per nascondere ed occultare i movimenti di chiunque voglia attraversare illegalmente il confine con l’Algeria o attaccare i militari di entrambi i paesi. Una base operativa di gruppi armati a meno di dieci chilometri dalla città.
Un membro delle forze di sicurezza tunisine rivela, a patto di restare anonimo, il perché del fenomeno: “queste contrade storicamente sono terra di contrabbandieri ma dopo la caduta di Ben Alì e la rivoluzione in Libia la situazione si è evoluta”. Ad aggiungersi al contrabbando di benzina, apparecchi elettronici e droga, è subentrato il business delle armi e dei combattenti provenienti da Algeria, Libia, Mali. “La criminalità locale si è ormai saldata con i gruppi paramilitari islamici, inaugurando un fiorentissimo mercato che crea utile per entrambi i gruppi”. Si stima siano circa cinquecento i jihadisti asserragliati a Chaambi, con almeno duemila uomini tra esercito e guardia repubblicana che cercano di stanarli. A dispetto dei numeri la situazione rimane però difficile: “L’ampiezza dell’area da controllare e la conformazione del terreno, con le sue gole e le sue grotte, è tale da rendere difficilissimo l’individuazione dei terroristi. Inoltre, i jihadisti utilizzano Chaambi come campo di addestramento per infiltrare cellule dormienti nel paese, quindi non si tratta mai degli stessi combattenti, cosa che impedisce la definitiva vittoria militare su questi gruppi” spiega il funzionario.
Sia nel sito archeologico della vicina Sbeitla che nella stessa riserva del monte Chaambi la presenza di jihadisti ha drasticamente peggiorato la situazione, azzerando il turismo e eliminando qualsiasi presenza straniera in città. Considerata come zona militare, si è quindi chiuso anche questo rubinetto per le casse comunali. “Maledetti terroristi, ci hanno rovinato. Io e i miei figli organizzavamo escursioni con i turisti all’interno del parco naturale. Vivevamo bene, a contatto con la natura, rispettosi di tutti. Ora che la zona è interdetta i miei figli sono stati costretti a spostarsi verso il nord, ed io sono obbligato a vivere del loro aiuto”. Ahmed Zueri è un uomo sulla sessantina, lineamenti duri e fieri di chi è abituato a vivere all’aria aperta. Mentre parliamo indica la camionetta piena di soldati che passa accanto a noi: “ora aiuto i soldati a stanare quei terroristi. Se lo meritano”.
Non tutti sono però d’accordo con Ahmed, e c’è chi ha approfittato di questa situazione per lucrarci sopra con il contrabbando. “A me importa poco degli islamisti, da quando la polizia e l’esercito sono impegnati a Chaambi ho più libertà per poter attraversare il confine con l’Algeria. Adesso in una sola notte riesco ad andare e tornare velocemente con il carico”. Mohammed l’ho incontrato per caso in un caffè di Kasserine, è spavaldo, parla italiano e non ha paura della Polizia e dei Servizi. “Tutti qui sopravvivono con il contrabbando. La polizia di frontiera conosce bene la situazione ma spesso non ha i mezzi per contrastare il fenomeno. La stretta reale riguarda i combattenti islamici” mi confida ammiccando vistosamente. Poi candidamente puntualizza: “d’altronde, se veramente eliminassero il contrabbando, il cinquanta percento delle famiglie non avrebbe di che vivere”. E scoppia in una fragorosa risata senza allegria. Purtroppo la sua è un’analisi puntuale di quello che è la realtà quotidiana di una città che stenta a riprendersi, congelata tra terrorismo e l’assenza di una reale politica di rilancio economico e sociale. Ma come è possibile cambiare le cose? E’ un murales anonimo sbiadito dal tempo a darmi la risposta: “Together we make the difference”. Insieme facciamo la differenza. Annuisco, forse è giusto così.