“La riuscita del progetto califfale in Iraq, a differenza della Siria, è stato possibile grazie ad un contesto socio-politico di incertezza e paura tra la popolazione sunnita che successivamente al ritiro di Washington è stata esacerbata dalle politiche dittatoriali e ostentatamente confessionali del governo centrale di Baghdad e dall’ex-premier iracheno Nouri al-Maliki.”
(Di Nino Orto) A seguito dell’avanzata su Mosul da parte dell’esercito iracheno e delle milizie del Governo Regionale del Kurdistan la controffensiva internazionale contro lo Stato Islamico entra in una nuova fase di pericoloso mutamento negli equilibri geopolitici e strategici dell’area. La regione a cavallo tra Siria e Iraq è infatti ormai divenuta di vitale importanza per gli interessi mondiali alla luce della ormai conclamata presenza delle due maggiori supepotenze militari (Stati Uniti e Russia), in un contesto di guerra regionale (Arabia Saudita e Iran) con forti ripecussioni strategiche per Turchia ed Israele. Una miscela potentissima di interessi militari e politici in un fazzoletto di terra pronto ad espodere.
L’Iraq dopo l’ascesa del Califfato come attore politico e la conseguente campagna per la riconquista dei territori occupati dai jihadisti si trova davanti ad un bivio storico che mina dalle fondamenta le già fragili basi del Paese. Molte le incognite che oggi accompagnano la ri-conquista di Mosul da parte dell’esercito iracheno. La compagine governativa è spaccata da forti divisioni interne tra il governo di Baghad e la sua componente minoritaria (i fedelissimi dell’ex-premier al-Maliki) che a loro volta sono in contrapposizione alla fazione ultra-nazionalista e religiosa di Muqtada al-Sadr.
La differenza sostanziale tra le due fazioni è lo stesso assetto futuro dell’Iraq; uno Stato a guida sciita con forti legami con il governo di Teheran e supportato da Stati Uniti e Russia il modello perseguito dal governo iracheno anche se con diversi gradi e declinazioni al proprio interno; un forte Stato centralizzato ma che rispecchi la distribuzione confessionale dei vari gruppi presenti in Iraq e indipendente da ingerenze straniere (soprattutto iraniane e statunitensi) quello del clerico Muqtada al-Sadr e del potente AyatollahʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī . Negli ultimi tre anni la lotta tra queste due “anime” all’interno della galassia sciita è stata per molti versi uno scontro non solo politico ma anche e sopratutto ideologico che alla fine sembra essere stato “congelato” grazie al colpo di mano del premier iracheno Haider al-Abadi, favorito dalla guerra allo Stato Islamico.
Lo scorso novembre il parlamento iracheno con una mossa a sorpresa ha legalizzato la presenza di milizie confessionali (da ricordare le famigerate Badr Force o la più recente Hashd Al-Shaabi) come parte integrante dell’esercito esacerbando ulteriormente le rivalità confessionali e ponendo seri dubbi sulla reale volontà di Baghdad di includere le altre comunità all’interno del processo decisionale politico iracheno. Uno dei principali ostacoli nella costruzione di un tessuto politico comune tra i tre grandi gruppi confessionali rimane infatti la presenza delle milizie direttamente collegate all’Iran che portano avanti una agenda politica che non contempla nessuna creazione di uno stato nazionale che tuteli la minoranza sunnita da coadiuvare all’interno del processo politico iracheno.
Al contrario, lo scopo sembra essere funzionale alla creazione di una “cintura sciita” che da Teheran, passando da Baghdad e Damasco, arrivi fino a Beirut nell’ambito di un più ampio scontro regionale con l’Arabia Saudita e altre potenze dell’area. Tutti elementi a cui si aggiungono le ormai frequenti frizioni con il governo regionale del Kurdistan iracheno, che aspira a sua volta ad un ulteriore distacco dal potere centrale di Baghdad e dove Kirkuk ed i suoi oleodotti rappresentano il principale campo di scontro. Una situazione instabile, che potrebbe minare dalla base la riuscita di qualsiasi successo militare contro i jihadisti di al-Baghdadi.
La lotta allo Stato Islamico ha esacerbato tutte le divisioni già presenti tra le componenti che formano il tessuto politico del paese e che avevano avuto modo di venire a galla già nel 2011 subito dopo il ritiro delle truppe statunitensi. Se la presenza di un nemico comune rappresentato dai jihadisti fornisce al momento un fattore unificante, allo stesso modo, una vittoria sullo Stato Islamico potrebbe creare una situazione di rottura insanabile che porterebbe ad una nuova instabilità permanente in tutto il territorio a maggioranza sunnita e non solo.
La riuscita del progetto califfale in Iraq, a differenza della Siria, è stato possibile grazie ad un contesto socio-politico di incertezza e paura tra la popolazione sunnita che successivamente al ritiro di Washington è stata esacerbata dalle politiche dittatoriali e ostentatamente confessionali del governo centrale di Baghdad e dall’ex-premier iracheno Nouri al-Maliki. Situazione che ha creato terreno fertile per una nuova convergenza di interessi tra jihadisti e quel che rimane del vecchio partito baathista iracheno e che sembrerebbe aver permesso la conquista e il mantenimento da parte dei jihadisti di un potere legittimato dai clan tribali a Mosul e nella provincia irachena di al-Anbar, come in altre città a maggioranza sunnita. Una legittimazione che molto probabilmente non potrà essere estirpata militarmente senza una strategia politica di lungo periodo. Questo perchè la base politica del Califfato in Iraq e nei territori sotto il suo controllo si regge più sulla pragmaticità delle tribù locali che sull’ideologia jihadista.
Per molti leader dello Stato islamico la sconfitta militare anche se inevitabile non è decisiva per mettere fine all’esistenza del movimento e del Califfato. Al contrario,senza nessun grande progetto di riqualificazione dei territori sunniti e della presenza “super-partes” dell’esercito iracheno o di altri attori “neutrali” la fedeltà delle tribù e delle grandi famiglie sunnite permetterà la sopravvivenza del gruppo anche in clandestinità. Senza nessun accordo tra sciiti, curdi e sunniti sulla futura gestione dei territori sottratti ai jihadisti lo Stato Islamico potrebbe infatti nuovamente riemergere come difensore della comunità sunnita, esacerbando le tensioni confessionali e le classiche azioni di guerriglia e terrorismo contro il governo centrale di Baghdad e i curdi. Il messaggio veicolato nelle lande desertiche dell’Iraq e ampliato dalla sconfitta siriana potrebbe tuttavia valicare anche i confini nazionali, inaugurando una nuova fase nella lotta senza quartiere tra i “nemici” del Califfato e i suoi seguaci. Una fase più disorganizzata e parcellizzata e, per questo, molto più difficile da contenere.