Quanto sappiamo del jihadismo internazionale e della realtà che si cela dietro la definizione di “ribelli siriani”? Come stanno realmente le cose sul campo? Lo chiediamo ad un jihadista tunisino di ritorno dalla Siria.
(di Nino Orto) Qual è il tuo nome e dove combattevi? “Il mio nome di battaglia è Abu Fatima ed in Siria ero di stanza ad Idlib, dove per circa sei mesi ho combattuto per consolidare le nostre posizioni in quel quadrante. La zona è stata calda per parecchio tempo ma ora è tranquilla”. Abu Fatima si riferisce alla battaglia che per mesi è infuriata tra ribelli e forze governative per il controllo di Idlib, considerata fin dall’inizio una roccaforte dei manifestanti anti-Asad. Dopo essere stata conquistata e persa da entrambe le parti, secondo i ben informati, la città sarebbe attualmente sotto il controllo dei salafiti jihadisti, che tentano di cacciare gli ultimi governativi rimasti.
Da quanto tempo sei tornato in Tunisia? Hai avuto problemi con la polizia? “Sono tornato da circa sei settimane ed all’inizio ho avuto qualche difficoltà. La polizia qui non vede di buon occhio i salafiti e ogni scusa è buona per essere arrestati. Nella realtà attuale siamo noi i capri espiatori della crisi tunisina. Ma voglio parlare di Siria e non di questo”. Non ha tutti i torti. In Tunisia la situazione resta tesissima dopo l’uccisione di due politici dell’opposizione e la strage di soldati a mount Chambi. La mancanza di risposte credibili da parte del governo di Tunisi non ha fatto altro che aumentare i dubbi e le diffidenze tra le varie componenti politiche. E in questa situazione di crisi i salafiti sembrano essere il colpevole perfetto.
Il tuo ruolo in Siria? Eri un operativo? “Avevo tanti ruoli, tra cui anche quello di combattere”. Come siete organizzati a livello militare? “Generalmente siamo divisi in gruppi di centocinquanta persone e siamo coordinati dai nostri sheikh”. Puoi raccontare qualche situazione in cui sei stato coinvolto? “No”.
Cosa succede nel paese? “La Siria è una nazione in guerra ma, a differenza di quello che si crede, nel nord ci sono ancora luoghi dove la gente vive tranquilla. Nel resto del paese, tuttavia, le milizie di Asad stanno sterminando un intero popolo e non si contano le persone sepolte vive, bruciate, sottoposte ad ogni tipo di violenza, compresa quella sessuale, dagli uomini del regime”
Sono accuse che vengono rivolte anche a voi.. “Gli uomini di Bashar al-Asad non fanno prigionieri con gli islamisti e noi facciamo lo stesso con loro”.
E i video delle atrocità del jihadismo internazionale contro i civili postati su youtube? “Molte cose attribuite agli islamisti, come per esempio lo stupro e l’omicidio a sangue freddo, sono considerate haram (proibite) dalla nostra religione e nego con forza queste accuse “.
Ma esistono video in cui sono chiaramente coinvolti gli islamisti.. “Il salafismo jihadista internazionale non è un movimento strutturato, almeno a livello di base, perché andare al jihad è innanzitutto una “chiamata divina”, e questo non può essere organizzato a priori. Tra di noi probabilmente ci sono anche mercenari, criminali che si arricchiscono con la guerra e che avranno sicuramente fatto delle cose per i loro interessi, ma quelli non sono veri musulmani. E comunque una guerra resta sempre una guerra.”
Ritorniamo sul campo. Qual’ è la situazione a livello militare? “Attualmente gli jihadisti sono arrivati alle porte di Latakia e Tartous, ma sono bloccati dai continui attacchi degli Hezbollah e dagli incessanti martellamenti degli aerei governativi. Aldilà di questo, il fronte centrale resta Homs, ed è lì che si giocano le sorti della guerra”. L’affermazione non è molto lontana dalla verità. Se i ribelli dovessero conquistare Homs, snodo fondamentale sull’asse est-ovest, taglierebbero la linea dei rifornimenti verso la città costiera di Latakia, che resterebbe quindi isolata ed esposta su tutti i fronti. Se anche quest’ultima poi cadesse in mano ai ribelli permetterebbe un notevole incremento dell’autonomia logistica dei jihadisti, che potrebbero a quel punto anche tentare di istituire un salafistan nel nord della Siria.
Quali sono i problemi più impellenti che affrontate in battaglia? “Soprattutto la mancanza di un supporto aereo. Abbiamo conquistato diverse basi aereonautiche governative ma non abbiamo le competenze necessarie per far decollare un jet militare. La capacità del regime di infiltrarsi tra le nostre fila è un altro grosso problema”. Questo avvalora quello riportato qualche tempo fa dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, quando indicava come nel nord della Siria, nei pressi della base 80 dell’aviazione siriana, fossero stati registrati sanguinosi scontri tra le truppe fedeli ad Assad e membri del fronte di al-Nusra, con la maggior parte della struttura passata sotto il controllo dei ribelli. Ulteriori conferme sono arrivate anche da attivisti locali, che sottolineano come i ribelli, negli ultimi tempi, abbiano spostato la loro attenzione dalla capitale provinciale di Aleppo verso le basi aereonautiche del regime, che rappresentano una fonte di munizioni e di armi, e permettono di mettere fuori uso gli aerei da guerra utilizzati da Damasco per bombardare i bastioni ribelli.
Parliamo del fronte islamista in Siria. Com’è organizzato e quanto è importante il jihadismo internazionale nella coalizione contro Asad? “Il movimento jihadista è composto da combattenti salafiti provenienti da tutte le parti del globo, compresa europa e stati uniti, in cui ognuno è inserito in specifici ruoli da ricoprire in base alle proprie capacità. Questo gruppo è molto importante negli equilibri della guerra, perché sono soprattutto i jihadisti internazionali con esperienza alle spalle quelli che vanno in prima linea a combattere e che organizzano i piani d’attacco.”
A livello percentuale quanto conta l’internazionale jihadista nella coalizione anti-asad? “Il sessanta percento è siriano e il restante quaranta percento è composto da jihadisti internazionali. Da un punto di vista religioso c’è una fortissima presenza salafita, un consistente gruppo proveniente dai fratelli musulmani, ed un altra piccola minoranza composta da laici ed altri.” Quindi la maggior parte degli islamisti combattenti sono gli stessi siriani? “Si. All’inizio chiedevano libertà e pane ma poi hanno capito, e si sono uniti a noi per il jihad contro Bashar”.
Ma come finanziate la guerra? Ricevete aiuti finanziari dall’esterno? Si parla molto di Arabia Saudita e Qatar come vostri sponsor. “Ci sono cose in cui potrei giurare ad altre in cui non posso”. Non serve di certo giurare per negare la realtà, anche se alcune distinzioni sui loro rapporti con i padrini del golfo sono assolutamente necessari. A livello teologico, il cordone ombelicale che lega il salafismo con il waabismo saudita deriva da una medesima visione ultra-ortodossa dell’Islam che, per motivi strutturali, non è suscettibile di critica o di punti di frizione. Con l’islam politico, e con il salafismo jihadista in particolare, c’è però una devianza nei fini, e cioè nel raggiungimento della giustizia di Dio in terra, che comporta un notevole antagonismo con Ryad. Da questo punto di vista, la frangia più estremista dei salafiti combattenti considera blasfema la stessa casa regnante della famiglia saudita. In parole povere, è possibile teorizzare che vi siano delle convergenze politiche tra Ryad e i gruppi jihadisti nel raggiungimento degli obiettivi in Siria, e che queste passino attraverso l’invio di denaro e di armi ai ribelli. Ma non è certo prudente affermare che il jihadismo internazionale sia uno strumento dei sauditi, e che esso possa essere utilizzato come pedina strategica da parte dei Saud. Questa assenza di “referenti” sembra essere un punto centrale nel movimento jihadistico in Siria.
Allora chi vi fornisce le armi, come arrivano nel paese? C’è qualche organizzazione transnazionale? “Questa è un’altra mistificazione dei media occidentali. Non c’è nessuna organizzazione dietro il jihad. Le armi vengono acquistate dal mercato nero delle armi, e provengono dalla Turchia, dall’Iraq, e dalla stessa Siria. Qualche volta ci siamo ritrovati ad utilizzare anche quelle trovate agli uomini del regime uccisi”. Circostanza che viene avvalorata anche da Cedric Labrousse, che riporta nella sua intervista al comandante del gruppo ribelle siriano Katiba come la mancanza di armi e munizioni siano un problema costante tra le fila dei ribelli.
E i soldi per portare avanti la guerra? “Nel nostro movimento ci sono persone che provengono da tutti i ceti sociali; quelli più facoltosi aiutano i meno fortunati nell’intraprendere il jihad per mostrarsi caritatevoli a Dio”.
Per quanto riguarda la Tunisia? Che rapporti hanno i salafiti di Ansar al-Sharia con l’Arabia Saudita? Ricevete appoggi finanziari e logistici da loro? “Non voglio parlarne”.
Un ultima domanda: si discute tanto su di un imminente attacco degli Stati Uniti contro il regime di Asad. Qual è la tua opinione in merito? “Se gli americani interverranno in maniera seria e coordinata sarà solo per attaccare noi islamisti. Questo perché Israele è terrorizzata dall’idea di un califfato in Siria e perché gli americani non si fidano di noi. Andremo comunque avanti per la nostra strada se Dio vuole”. Al di là del fervore religioso, la sua versione sembra credibile se si considera l’atteggiamento quanto mai prudente di Washington nell’avvallare un attacco militare di qualsiasi tipo. Se da una parte, la paura di fornire un vantaggio strategico che permetta ai ribelli la conquista di Homs -che di fatto cambierebbe i destini della guerra- sembra frenare ogni velleità statunitense, dall’altra c’è il vero e proprio dilemma strategico su come trattare con Teheran e Mosca. La nazione persiana potrebbe infatti non gradire interferenze e resta pronta a provocare un effetto domino su tutta la regione. E a quel punto, Obama dovrà capire chi sono gli amici di ieri e i nemici di domani.
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