Crediti foto: Ahmed Akacha
La proposta di Trump non è nuova: la storia mostra perché ogni tentativo di ricollocare i gazawi è fallito.
L’idea di trasferire permanentemente i palestinesi di Gaza è tornata ancora una volta al centro del dibattito pubblico, ma le sfide storiche rimangono le stesse. Il costante fallimento di tali iniziative deriva da una combinazione di politiche regionali, diritto internazionale e resistenza palestinese. Giordania ed Egitto rimangono fermamente contrari a qualsiasi trasferimento su larga scala, temendo effetti destabilizzanti sulle loro società e sulla propria sicurezza.
Lo sfollamento forzato è ampiamente condannato dal diritto internazionale e i palestinesi rifiutano in massa qualsiasi tipo di trasferimento, considerandolo (a ragione) una minaccia alle loro aspirazioni nazionali per uno Stato indipendente. Inoltre, la storia suggerisce che qualsiasi tentativo di trasferire forzatamente i gazawi non solo fallirebbe, ma aggraverebbe anche l’attuale cessate il fuoco tra Hamas ed Israele, metterebbe a rischio gli accordi di pace regionali, e potrebbe scatenare nuovi conflitti in una regione già cronicalmente instabile.
La recente proposta di Donald Trump di trasferire i palestinesi di Gaza nei vicini paesi arabi ha riacceso un dibattito di lunga data, ma l’idea non è affatto nuova. Nel corso della storia, diversi attori hanno avanzato proposte simili, incontrando sempre resistenza sia da parte dei palestinesi che dalle potenze regionali. Il concetto di spostare la popolazione di Gaza è stato ripetutamente considerato, ma ogni tentativo ha incontrato ostacoli politici, logistici ed etici che lo hanno reso impraticabile.
Le radici di queste proposte risalgono alla Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono sfollati durante la guerra arabo-israeliana. Molti trovarono rifugio a Gaza, allora sotto amministrazione egiziana, ma l’Egitto non li integrò mai completamente, limitandone la libertà di movimento e mantenendoli nei campi profughi. Questa riluttanza ad assumersi la responsabilità è persistito nei decenni successivi. Anche durante il dominio egiziano, si discusse della possibilità di ricollocare i gazawi altrove, ma il Cairo mostrò scarso interesse ad assorbirli in modo permanente.
Dopo la conquista israeliana di Gaza nella guerra del 1967, i leader israeliani esplorarono l’idea di reinsediare i palestinesi nel Sinai. Vennero persino offerti incentivi all’emigrazione, ma nessun paese arabo fu disposto ad accogliere un gran numero di rifugiati palestinesi. Gli Accordi di Camp David del 1979 offrirono un’altra occasione per ridefinire il destino di Gaza: Israele suggerì all’Egitto di riprendersi il territorio, ma il presidente Anwar Sadat rifiutò categoricamente, rafforzando la posizione storica della Lega Araba secondo cui i rifugiati palestinesi dovevano rimanere dov’erano fino a una soluzione politica definitiva.
Con l’evoluzione degli sforzi diplomatici negli anni ’90, gli Accordi di Oslo fornirono un quadro per l’autonomia palestinese, ma non contemplavano nessun trasferimento di massa. Il disimpegno israeliano da Gaza nel 2005 consolidò ulteriormente la Striscia come un’entità autonoma, ma sempre più isolata. Sebbene si siano susseguite discussioni periodiche per alleviare la pressione umanitaria, in particolare con il “Deal of the Century” della prima amministrazione Trump, nessun paese della regione si è mai dichiarato disponibile ad accogliere i gazawi. Egitto e Giordania, in particolare, hanno costantemente respinto tali proposte, citando timori per la stabilità politica, i cambiamenti demografici e possibili reazioni negative delle popolazioni.
Ora, in risposta al nuovo impulso di Trump, Israele sta elaborando un piano concreto per facilitare l’esodo volontario. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha incaricato l’IDF di sviluppare un progetto che consenta ai palestinesi di Gaza di partire via terra, mare e aria, sottolineando la necessità di garantire loro libertà di movimento. Il piano di Katz suggerisce che paesi critici nei confronti delle azioni israeliane, come Spagna, Irlanda e Norvegia, dovrebbero essere obbligati ad accogliere i rifugiati di Gaza, mettendo alla prova le loro proposte umanitarie. Ha anche menzionato il precedente interesse del Canada per l’accoglienza dei palestinesi nell’ambito della sua politica migratoria. Secondo il governo israeliano, questa strategia non solo alleggerirebbe la pressione demografica su Gaza, ma accelererebbe anche la ricostruzione in un’era post-Hamas.
Le dichiarazioni di Trump alla Casa Bianca—dove ha definito Gaza un “inferno” e ha suggerito che i palestinesi se ne andrebbero se ne avessero la possibilità—hanno alimentato ulteriormente il dibattito. La sua ultima proposta, ora accompagnata da iniziative concrete di Israele, segue però il solito schema di piani di reinsediamento impraticabili, che sono stati ripetutamente respinti nel corso della storia. Sebbene Gaza rimanga una sfida umanitaria e geopolitica, l’idea di risolvere la crisi attraverso lo spostamento di massa della popolazione non è né nuova né realistica. La storia della regione ha dimostrato più volte che, invece di tentare di trasferire altrove la popolazione di Gaza, qualsiasi soluzione duratura deve affrontare le realtà politiche che li hanno tenuti bloccati in un limbo per decenni.