Nouri al-Maliki: biografia di un “quasi-dittatore”

Con l’amministrazione Obama che prometteva di porre fine alla “guerra stupida” di Bush, i crescenti problemi derivanti dalla crisi economica globale, e in mezzo al vuoto di potere venutosi a creare durante il cambio di amministrazione, Maliki coglieva l’occasione, iniziando una sistematica campagna per distruggere lo Stato iracheno e sostituirlo con il suo ufficio privato ed il suo partito politico. (di Redazione) L’Iraq, a distanza di dodici anni dall’invasione statunitense, è una nazione spaccata e perennemente sull’orlo del baratro economico e sociale. Per capire perché l’Iraq sta implodendo, a prescindere dalle responsabilità di Washington, è necessario quindi approfondire su colui che dal 2006 fino all’estate del 2014 è stato il leader della fazione dominante del Paese:  il primo ministro sciita Nouri al-Maliki o Abu Isra, cosi’ come è conosciuto dai suoi sostenitori iracheni.

La biografia

Nato in Tuwairij, un villaggio poco distante dalla città santa per gli sciiti iracheni di Karbala, Abu Isra è il nipote di un importante leader tribale che ha contribuito a porre fine dominio coloniale britannico nel 1920. Cresciuto in una devota famiglia sciita, è cresciuto nel risentimento verso il dominio della minoranza sunnita in Iraq, in particolare contro il laico ma repressivo partito Baath. Maliki, infatti, fin da giovane ha militato all’interno del partito teocratico Dawa, credendo nell’obiettivo tanto cercato di creare uno stato sciita in Iraq con ogni mezzo necessario.

Intorno alla fine degli anni settanta, dopo le crescenti schermaglie tra sunniti laici, sciiti e cristiani baathisti contro i gruppi sciiti islamici, tra cui Dawa, il regime di Saddam Hussein dichiarò la militanza in questo gruppo come un reato capitale. Accusati di essere favoreggiatori dei religiosi iraniani e dei funzionari di intelligence, migliaia di membri del partito Dawa furono arrestati, torturati e giustiziati. Molti dei corpi dei militanti non furono mai restituiti alle loro famiglie: tra questi anche alcuni parenti stretti di Maliki, che senza dubbio ha plasmato fortemente la militanza politica del futuro premier.

In un arco di tre decenni, Maliki si trasferisce tra Iran e Siria, dove ha organizzato operazioni segrete contro il regime di Hussein, fino a diventare capo della branca irachena di Dawa a Damasco. Il partito sciita, in quel periodo aveva trovato un potente sostenitore nell’Ayatollah Ruhollah Khomeini, guida suprema della repubblica islamica dell’Iran. Durante la guerra Iran-Iraq degli anni 80, quando l’Iraq usò armi chimiche contro i soldati iraniani, Teheran si vendicò utilizzando i proxy islamisti sciiti come Dawa per punire i sostenitori di Saddam.

Con l’aiuto dell’Iran, nel 1981 i miliziani di Dawa attaccarono l’ambasciata irachena a Beirut, in uno dei primi attentati suicidi compiuti da radicali islamici. Gli stessi che programmarono gli attacchi alle ambasciate statunitense e francese in Kuwait così come le decine di tentativi di assassinio contro i membri di alto livello del governo di Hussein, tra cui il dittatore, che fallirono però miseramente, con conseguenti arresti di massa ed esecuzioni.

Durante i mesi tumultuosi successivi all’invasione americana dell’Iraq nel 2003, Maliki tornò nel suo paese d’origine, ottenendo un lavoro di consulenza con il futuro primo ministro Ibrahim al-Jafari e poi, come membro del parlamento, presiedette al celeberrimo Comitato di sostegno alla Commissione per la De-ba’athificazione, organo considerato privatamente dagli sciiti islamisti come mezzo di punizione e pubblicamente denunciato dai sunniti come strumento di repressione.

A partire del 2004, le tensioni etnico-settarie aumentano esponenzialmente. Con gli eccidi criminali compiuti da Saddam ancora freschi nelle loro menti, i nuovi leader sciiti iracheni cominciarono a creare dei “sistemi legali” di vendetta contro i sunniti, causando terribili episodi di torture, stupri e altri abusi. Questo causò quasi naturalmente il contrattacco degli ex-membri del partito Baath che organizzarono una rivolta sanguinosa, mentre al-Qaeda reclutava sempre più giovani negli spettacolari attacchi attraverso tutto il paese nel tentativo di fomentare il caos e la guerra interconfessionale con gli sciiti.

Dopo il febbraio 2006, con il bombardamento della moschea di Askariya a Samarra, uno dei santuari più sacri per i quasi 200 milioni di fedeli dell’Islam sciita, i leader sciiti rispondevano quindi con un contrattacco feroce, scatenando una guerra civile che ha lasciato sul terreno decine di migliaia di iracheni. In questo contesto, Maliki diventava primo ministro del Paese il 20 maggio 2006.

L’entrata in politica

I primi anni di Maliki al potere furono particolarmente duri: si trovava a gestire un enorme livello di violenza nel paese che ogni mese uccideva migliaia di iracheni e causava milioni di sfollati, doveva contrastare il collasso dell’industria petrolifera, tenere a bada partner politici divisi e corrotti così come le delegazioni di un Congresso degli Stati Uniti sempre più impaziente. Con il Surge statunitense del 2007 e l’istituzione del Movimento del Risveglio sunnita alla fine del 2008, la situazione però migliorava. Grazie a lunghe trattative, i sunniti dei clan tribali e i baathisti terminavano la propria guerra contro le truppe Usa e si ribellavano ad al-Qaeda, permettendo così il reintegro della comunità sunnita nel processo politico iracheno. Inizialmente ostile all’idea di armare e finanziare i combattenti sunniti, Maliki alla fine cedette dopo un’intensa attività di lobbying da parte di Wshington. In seguito, accettava anche di assumere e finanziare alcuni dei combattenti sunniti, ma molte delle sue promesse verso i clan tribali non sono state mantenute, lasciando la comunità disoccupata, amareggiata e ancora suscettibile di radicalizzazione contro il governo.

Nel corso del tempo, Maliki ha contribuito a creare compromessi con i suoi rivali politici e ha firmato contratti da miliardi di dollari con aziende multinazionali al fine di modernizzare l’Iraq. Nel 2009, il paese sembrava essere di nuovo in grado di ripartire. Maliki non ha però reso le cose facili: incline a teorie del complotto, dopo decenni di fuga dai servizi di intelligence di Saddam, era convinto che il suo rivale Moqtada al-Sadr stesse cercando di spodestarlo. Inizio quindi apparentemente senza nessuna pianificazione, una lotta contro l’Esercito del Mahdi, la milizia sciita capeggiata da Sadr

Incoraggiati dalla sua prima vittoria contro la milizia a Bassora, e con una massiccia assistenza militare degli Stati Uniti, Maliki ha guidato la seconda offensiva per riprendere Sadr City. Attraverso una fusione senza precedenti di mezzi militari e di intelligence americani e iracheni, centinaia di militanti sciiti furono eliminati nel giro di poche settimane. La più grande vittoria di Maliki, che contribuì alla sua fama nel paese, fu quella di demilitizzare l’ambiente politico iracheno, eliminando di fatto tutti i gruppi armati sunniti e sciiti che avevano quasi guidato il paese nel baratro.

Il quasi-dittatore Maliki

Con l’avvicinarsi del 2009, e l’impellente bisogno della Casa Bianca di stabilizzare, almeno superficialmente, l’Iraq prima della fine del mandato di George W Bush permettevano tuttavia che Maliki e i suoi collaboratori chiedessero tutto in cambio di nulla.

Con l’amministrazione Obama che prometteva di porre fine alla “guerra stupida” di Bush, i crescenti problemi derivanti dalla crisi economica globale, e in mezzo al vuoto di potere venutosi a creare durante il cambio di amministrazione, Maliki coglieva l’occasione, iniziando una sistematica  campagna per distruggere lo Stato iracheno e sostituirlo con il suo ufficio privato ed il suo partito politico. Licenziava generali professionisti e li sostituiva con quelli personalmente a lui fedeli. Nello stesso tempo, perseguitava i leader della comunità sunnita costringendo alcuni, come il vice-presidente Hashimi, a scappare dal paese. Maliki negli anni non nominava nessun ministro della Difesa, né un capo dei servizi segreti. Al contrario, accentrava tutte le cariche per se stesso. E non rispettava nessuna promessa fatta al fine di condividere il potere con i suoi rivali politici.

Oltretutto, non chiudeva il suo Ufficio di Comandante in Capo, l’ente che ha utilizzato per bypassare la catena di comando militare, facendo si che tutti i comandanti riferissero direttamente a lui. Così come non mollava il controllo delle squadre antiterrorismo e SWAT addestrate negli Stati Uniti, che utilizzava come una guardia pretoriana. Maliki, inoltre, non ha smantellato le organizzazioni segrete di intelligence, non ha chiuso le prigioni e le strutture detentive.
Con la sua sostituzione è cambiato qualcosa? O forse assistiamo alla definitiva rottura dell’Iraq in tre regioni?
(di Redazione) L’Iraq, a distanza di dodici anni dall’invasione statunitense, è una nazione spaccata e perennemente sull’orlo del baratro economico e sociale. Per capire perché l’Iraq sta implodendo, a prescindere dalle responsabilità di Washington, è necessario quindi approfondire su colui che dal 2006 fino all’estate del 2014 è stato il leader della fazione dominante del Paese: il primo ministro sciita Nouri al-Maliki o Abu Isra, cosi’ come è conosciuto dai suoi sostenitori iracheni.
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