Con la crescente presenza dell’ISIS nel nord-est del paese e le minoranze in aperta rivolta contro il potere centrale, il nuovo governo siriano si trova ad affrontare una guerra che nasce dall’interno.
In un’inattesa inversione di rotta, l’amministrazione Trump e l’Unione Europea hanno deciso in maniera coordinata e coerente la cessazione del regime internazionale di sanzioni imposto alla Siria in una mossa senza precedenti volta a sostenere il governo transitorio guidato da Ahmed al-Sharaa, meglio conosciuto come Abu Muhammad al-Julani. Un tempo comandante jihadista e leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), al-Julani si trova ora al centro di un complesso rimescolamento diplomatico che potrebbe ridefinire il futuro della Siria.
La nuova politica occidentale nei confronti di Damasco è stata formalizzato attraverso la sospensione delle sanzioni del Caesar Act, imposte nel 2019 per punire il regime di Assad per crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. Il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha sottolineato la necessità umanitaria di un alleggerimento delle sanzioni per favorire la ricostruzione siriana, avvertendo come “se il governo ad interim dovesse crollare, potremmo assistere a una rinascita dell’ISIS e a una nuova frammentazione dello Stato siriano.”
La legittimità del governo di al-Julani rimane fragile. Nonostante si sia pubblicamente distanziato da al-Qaeda e abbia fatto aperture verso posizioni più moderate, gli Stati Uniti continuano a classificare l’HTS come organizzazione terroristica. Tuttavia, l’urgenza di evitare un vuoto di potere sembra prevalere sulle riserve di lunga data. Le valutazioni dell’intelligence indicano che l’ISIS ha riguadagnato forza nel nord-est della Siria, con cellule dormienti che hanno tentato di assassinare al-Julani e lanciato attacchi contro forze siriane.
In risposta, al-Julani ha avviato una serie di mosse strategiche per guadagnare il favore dell’Occidente. Ha ordinato l’espulsione delle fazioni palestinesi filo-iraniane dal territorio siriano, arrestato i leader della Jihad Islamica Palestinese e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), e chiuso le loro operazioni in Siria. Queste azioni suggeriscono una netta rottura con l’“asse della resistenza” storicamente sostenuto dal regime di Assad.
Un altro sviluppo, altrettanto sorprendente, è l’emergere di negoziati segreti tra Israele e Siria, facilitati dagli Emirati Arabi Uniti e apparentemente approvati da Washington. Sebbene i dettagli rimangano scarsi, un funzionario israeliano ha riconosciuto “gesti di buona volontà” da parte di Damasco e ha accennato a possibili azioni reciproche. In un senso più ampio, il flirt diplomatico del nuovo regime con la normalizzazione ricorda la traiettoria degli Accordi di Abramo, con la terza fase del piano di alleggerimento delle sanzioni USA esplicitamente condizionata all’instaurazione di relazioni diplomatiche con Israele.
Nel frattempo, attori regionali come Turchia e Israele avrebbero istituito una “linea diretta” per prevenire incidenti in un teatro sempre più instabile. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, intervenuto virtualmente al recente vertice di Trump con al-Julani e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ha definito l’alleggerimento delle sanzioni “storico”, suggerendo come Ankara potrebbe allinearsi alla visione americana per una Siria post-Assad.
Nonostante queste aperture, la Siria rimane divisa e instabile. Divisioni etniche e settarie continuano a ostacolare gli sforzi del governo transitorio per consolidare il potere. La comunità alawita, drusa e curda esprimono resistenze alla leadership di al-Julani, temendo una prosecuzione dell’autoritarismo sotto nuove sembianze. I servizi di intelligence temono che l’ISIS possa sfruttare queste tensioni interne per tornare alla ribalta, in particolare assaltando i centri di detenzione curdi dove sono detenuti migliaia di combattenti jihadisti.
Le capitali europee, guidate da Germania e Francia, hanno sostenuto l’alleggerimento delle sanzioni anche per incentivare il rimpatrio dei rifugiati siriani e rafforzare l’influenza francese nel Levante. Il Giappone si starebbe preparando a fare altrettanto, segno di un più ampio riallineamento delle posizioni internazionali nei confronti della Siria.
L’amministrazione Trump starebbe valutando se procedere con una revoca “graduale” delle sanzioni o adottare un approccio più aggressivo e immediato. Un promemoria trapelato dal Dipartimento di Stato USA delinea un processo in tre fasi: deroghe immediate per gli aiuti umanitari, espansione condizionata a riforme di governance, e fase finale legata all’adesione della Siria agli Accordi di Abramo e alla distruzione di ogni residuo programma di armi chimiche.
Se questa roadmap avrà successo o si rivelerà un boomerang resta una questione aperta. I critici sostengono che il sostegno occidentale a un regime transitorio con radici ideologiche jihadiste rischia di legittimare un nuovo autoritarismo. Altri ritengono che l’alternativa -un vuoto sfruttato da ISIS, Iran o persino dalla Russia- sia ancora peggiore.
Con le dinamiche regionali in evoluzione e le alleanze occidentali impegnate a ricalibrare le proprie strategie, la Siria si trova a un bivio. Il futuro di al-Julani -e per estensione quello della Siria- dipenderà non solo dal riconoscimento esterno, ma anche dalla sua capacità di costruire una struttura politica realmente inclusiva. Per ora, l’Occidente scommette sul pragmatismo più che sui principi, nella speranza che una nazione profondamente divisa possa ancora essere ricucita all’ombra della diplomazia globale.