Photo credit: Nino Orto
Perché, alla fine, la solitudine non è essere soli. È il non essere visti, non essere compresi. Israele ha a lungo chiesto il riconoscimento ad esistere – ai suoi nemici, al mondo. Ma ora è tempo che Israele impari anche a riconoscere sé stessa.
Nel turbolento scenario della politica mediorientale, Israele si è sempre distinto — non solo per la sua potenza militare, l’innovazione tecnologica o la complessità della sua storia — ma, sempre più, per il suo profondo isolamento politico e morale. Una solitudine che non è più soltanto diplomatica: è strategica, esistenziale e, in misura crescente, autoimposta.
Un tempo, questo senso di solitudine veniva portato come un distintivo d’onore. L’ex Primo Ministro Ehud Barak descrisse Israele come una “villa nella giungla”, metafora di una democrazia liberale circondata da caos e ostilità. Ma oggi quella giungla è diventata più instabile, e la villa sempre più fortificata. E sola.
Gli Accordi di Abramo del 2020 avevano acceso una speranza: la possibilità di una normalizzazione dei rapporti con parte del mondo arabo, un fragile ma promettente segnale che Israele potesse finalmente diventare una “nazione tra le nazioni”. Quella speranza è quasi del tutto svanita.
L’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas — senza precedenti per brutalità — ha lasciato Israele ferito, furioso e determinato. Ma la campagna militare che ne è seguita a Gaza, l’ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania e le tensioni con Hezbollah, gli Houthi e l’Iran hanno trasformato l’inquietudine regionale in ostilità conclamata. Il processo di normalizzazione è in bilico. Il sostegno internazionale vacilla.
Anche il rapporto con gli Stati Uniti, un tempo incrollabile, inizia a mutare. Gli aiuti militari e la protezione diplomatica restano, ma il tono è cambiato. L’alleanza appare più condizionata. Anche l’Europa, da sempre prudente nelle critiche, ha alzato la voce. E, al di là dei governi, nelle piazze e nei social, l’opinione pubblica globale è sempre più ostile a Israele.
All’interno del Paese, molti israeliani si sentono abbandonati da un mondo che non comprende la realtà in cui vivono. Il trauma del 7 ottobre ha riacceso paure profonde, radicate nella storia e nell’identità ebraica. “Mai più” non era, per molti, uno slogan: era una dottrina. Il massacro del 2023 ha risvegliato una verità sepolta: per Israele, sopravvivere non è una politica, è una necessità. Questa verità deve essere compresa e riconosciuta.
Ma nemmeno questa consapevolezza può oggi proteggere Israele dal giudizio morale che lo investe. La distruzione a Gaza, l’altissimo numero di vittime civili, la sofferenza di un’intera popolazione hanno lasciato Israele esposto non solo militarmente, ma anche eticamente. Le immagini che circolano nel mondo mostrano una devastazione che nemmeno gli alleati più fedeli riescono più a giustificare. Il mantra dell’“autodifesa” ha perso potere persuasivo nell’immaginario globale.
Eppure, l’isolamento di Israele non è solo esterno: è anche interno. Il Paese è sempre più diviso. Tra ebrei religiosi e laici. Tra cittadini ebrei e arabi. Tra moderati ed estremisti. Tra chi vede l’occupazione come una colpa morale e chi la considera un mandato divino.
Le proteste del 2023 contro la riforma giudiziaria, le spaccature nell’IDF e nella leadership politica, e la rabbia per il fallimento del 7 ottobre hanno rivelato una nazione profondamente lacerata. La guerra può aver temporaneamente ricompattato il fronte interno, ma le ferite profonde — disuguaglianza, estremismo ideologico, sfiducia — restano aperte.
È da qui che Israele deve iniziare la sua resa dei conti.
Per uscire dalla sua solitudine, Israele deve guardare dentro sé stesso tanto quanto fuori. Il primo passo verso un futuro sostenibile è mettere a tacere gli estremisti al suo interno: coloro che usano la religione per giustificare l’espansionismo, quelli che attaccano le comunità palestinesi in Cisgiordania, e i leader che hanno tollerato — o favorito — la violenza dei coloni.
L’idea che ogni critica sia un attacco, che ogni compromesso sia una debolezza, va abbandonata. Israele deve riconquistare quella identità democratica e pluralista che è stata alla base della sua fondazione.
Parallelamente, deve avviarsi un nuovo processo politico con il popolo palestinese — non con Hamas o la Jihad Islamica, ma con le voci più moderate, secolari e pragmatiche che esistono. Spesso messe a tacere, emarginate, strette tra occupazione israeliana ed estremismo interno. Sono queste le figure — accademici, leader civici, giovani imprenditori, dissidenti sia dell’ANP che di Hamas — che devono essere ascoltate, non ignorate. Se la pace deve essere più di una parola, sono loro che devono sedere al tavolo.
Tutto ciò richiede coraggio, immaginazione e concessioni dolorose. Tutte qualità che già risiedono all’interno del tessuto sociale israeliano. Ma l’alternativa – guerra senza fine e isolamento crescente – è una minaccia ben più grande per il futuro di Israele che qualunque concessione diplomatica.
C’è un’espressione spesso ripetuta nel dibattito pubblico israeliano: “Meglio avere ragione che essere amati.” È una frase che esprime la fierezza e la resilienza del carattere nazionale. Ma rivela anche una vulnerabilità profonda. In un mondo che si muove per alleanze, empatia e percezione, l’isolamento non è forza. È un limite.
Israele oggi si trova a un bivio morale e strategico. Può continuare a fortificare i suoi muri – concreti e simbolici – oppure può fare qualcosa di più difficile: scendere da quelle mura, ascoltare, riconoscere l’altro. Non solo sopravvivere, ma cercare una connessione.
Perché, alla fine, la solitudine non è essere soli. È il non essere visti, non essere compresi. Israele ha a lungo chiesto il riconoscimento ad esistere – ai suoi nemici, al mondo. Ma ora è tempo che Israele impari anche a riconoscere sé stessa.
Potrebbe essere la sua battaglia più difficile. Ma anche la più importante.