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Trump e la Fine della Diplomazia: quando la Politica diventa Spettacolo

by Nino Orto
13 Maggio 2025
in Analisi
Reading Time: 5 mins read
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Trump e la Fine della Diplomazia: quando la Politica diventa Spettacolo

Image by hafteh7 from Pixabay

Con l’inizio del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca la politica estera americana si sgancia definitivamente dai canali tradizionali della diplomazia, allineandosi ad uno stile che riflette l’indole e la visione del mondo di Trump.

Con l’inizio del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca, la politica estera americana si è allontanata ulteriormente dai canali tradizionali della diplomazia, trasformandosi in uno spazio dominato quasi interamente dalla lealtà personale, dalla spettacolarizzazione pubblica e da una logica di scambio immediato. I pilastri storici delle relazioni internazionali statunitensi -costruiti nel tempo attraverso istituzioni, alleanze multilaterali e accordi di lungo termine- sono stati progressivamente sostituiti da uno stile che rifletteva direttamente l’indole e la visione del mondo di Trump.

I leader internazionali hanno compreso che ciò che conta non è più l’allineamento con la politica degli Stati Uniti, ma con la figura di Trump stesso.

Già durante il suo primo mandato, Trump aveva ridisegnato la postura degli Stati Uniti sulla scena globale: si era ritirato da accordi internazionali, aveva polemizzato con alleati storici, elogiato leader autoritari e trasformato i vertici diplomatici in vere e proprie esibizioni mediatiche. Ma è stato nel secondo mandato, libero dal vincolo della rielezione e circondato sempre più da fedelissimi invece che da tecnici istituzionali, che ha potuto spingersi oltre. La politica estera è diventata una proiezione diretta del suo istinto, dei suoi rancori, del suo marchio personale.

Trump predilige leader che rispecchiassero la sua visione: uomini forti, nazionalisti, che esigevano lealtà assoluta. Vladimir Putin, Mohammed bin Salman, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán non sono semplici interlocutori, ma veri e propri alleati ideologici in un nuovo ordine mondiale fondato più sulla forza che sul consenso. I rapporti con questi leader spesso si sviluppano tramite canali diretti, talvolta aggirando completamente il Dipartimento di Stato, con una gestione personalistica della diplomazia.

Per Trump, le alleanze non si basano su valori condivisi, ma su contratti che se non portano vantaggi immediati allora devono essere stracciati.

Al contrario, gli alleati storici vengono trattati con aperta diffidenza. I leader europei critici verso Trump vengono regolarmente ridicolizzati o ignorati. La NATO, un tempo pietra angolare della sicurezza occidentale, viene continuamente minacciata di disimpegno americano, a meno che gli altri membri non aumentino drasticamente la spesa militare secondo i parametri imposti da Trump. Le organizzazioni multilaterali — come l’ONU, l’OMS o il WTO — sono viste come ostacoli, non come strumenti di cooperazione. Per Trump, le alleanze non si basano su valori condivisi, ma su contratti che se non portano vantaggi immediati allora devono essere stracciati.

Alla base di questo approccio c’è il rifiuto totale di qualsiasi idea di leadership morale nella politica estera a stelle e striscie. Diritti umani, promozione della democrazia, libertà di stampa; ovvero i capisaldi della “soft power” americana vengono messi da parte. Gli aiuti internazionali diventano strumenti di pressione condizionati all’approvazione personale. L’assistenza militare viene concessa solo in cambio di fedeltà. Le crisi internazionali sono occasioni per rafforzare l’immagine di Trump come “deal maker”, anche quando gli accordi risultano effimeri o simbolici.

La conseguenza principale di tutti questi fattori è una politica estera sempre più dettata dalla spettacolarizzazione e sempre meno da una strategia coerente. Gli incontri con Kim Jong-un, ad esempio, servivano più alla messa in scena che a una reale denuclearizzazione della penisola koreana. In Medio Oriente, le scelte unilaterali e gli Accordi di Abramo vengono presentati come successi storici, pur ignorando del tutto la questione palestinese, il nucleare iraniano, le richieste saudite e giordane, le paure di Tel Aviv. I rapporti con i rivali globali sono volubili, dettati dall’umore del momento o da calcoli politici interni, piuttosto che da una visione geopolitica complessiva.

Oggi, in un mondo diviso resta un’interrogativo fondamentale: è ancora possibile tornare a una diplomazia basata sulle istituzioni e sui principi, oppure l’epoca dello statista nazionale è stata definitivamente sostituita da quella dello showman?

Nel secondo mandato, ciò che è cambiato drasticamente non è tanto il contenuto della visione trumpiana, quanto la sua attuazione. Con i contrappesi istituzionali sempre più indeboliti e molti diplomatici di carriera messi in disparte, la diplomazia americana è diventata più centralizzata, impulsiva e imprevedibile. I leader internazionali hanno presto compreso che ciò che conta non è più l’allineamento con la politica degli Stati Uniti, ma con la figura di Trump stesso.

Per alcuni, si tratta di un necessario cambiamento di rotta. I sostenitori di Trump sostengono che abbia finalmente smascherato le ipocrisie della diplomazia delle élite, riportando al centro l’interesse nazionale. Secondo loro, gli alleati internazionali hanno sfruttato gli Stati Uniti per troppo tempo, e lo stile irruento di Trump è solo una mossa positiva per l’economia statunitense. Altri, invece, vedono in questo approccio un pericoloso smantellamento dell’influenza degli Stati Uniti nel teatro globale: la perdita di fiducia, la frantumazione delle regole globali e l’indebolimento del ruolo di guida americana proprio nel momento in cui potenze come Cina e Russia si preparano a colmare il vuoto geopolitico lasciato da Washington.

Con il passare del tempo e l’intensificarsi delle crisi internazionali, le conseguenze di una diplomazia incentrata sulla persona diventano sempre più evidenti. Le decisioni sono impulsive, spesso dettate dalla narrativa più che dalla realtà geopolitica. E la linea che separa la politica estera dagli interessi di politica interna diviene sempre più sottile.

Oggi, in un mondo diviso tra chi ha abbracciato lo stile di Trump e chi lo respinge, resta un’interrogativo fondamentale: è ancora possibile tornare a una diplomazia basata sulle istituzioni e sui principi, oppure l’epoca dello statista nazionale è stata definitivamente sostituita da quella dello showman?

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Tags: evidenzaNino OrtoOsservatorio MashrekPolitica estera Donald Trumpstati uniti
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Nino Orto è un giornalista freelance specializzato in geopolitica e conflitti del Medio Oriente, con un focus particolare su Iraq, Siria e le dinamiche delle guerre nella regione. Da oltre dieci anni, analizza e racconta dal campo le aree di crisi più complesse al mondo, tra cui il conflitto israelo-palestinese, la guerra in Ucraina, il fenomeno delle migrazioni verso l’Europa, il jihadismo internazionale e le tensioni interreligiose tra sunniti e sciiti. Le sue analisi sono state pubblicate su testate internazionali come The New Arab e Fanack Chronicle, nonché su media italiani come Il Manifesto, The Post Internazionale e Equilibri. Nel 2014, ha fondato Osservatorio Mashrek, una piattaforma di approfondimento dedicata alle trasformazioni politiche e sociali della regione mediorientale. E’ autore del libro “Business, Piombo, Dollari: La privatizzazione della guerra irachena”, un’analisi dettagliata sul ruolo delle compagnie militari private nel conflitto iracheno e sulle implicazioni economiche e politiche della esternalizzazione della gestione della guerra ai privati.

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