“Ho venduto la casa, i gioielli, la macchina, e sono scappato. Ora voglio solo andare in Svezia e ricominciare una nuova vita. La Siria ormai non esiste più”
(di Nino Orto) Ore 10:50. Stazione centrale di Catania. Una piccola folla di famiglie aspetta ordinata l’arrivo del treno che li porterà verso nord, verso la salvezza, verso un Europa che finalmente comincia ad aprire gli occhi sulla tragedia che da anni si consuma in Siria. Fanno parte della nuova ondata di profughi siriani salvati nei giorni scorsi dalla Marina italiana al largo delle coste siciliane. Alcuni provengono dall’Egitto, altri dalla Libia. Tutti hanno negli occhi la stessa ferma determinazione a lasciarsi alle spalle la guerra. In cerca di un futuro migliore.
Dopo tre anni di conflitto, in Siria il numero dei profughi e degli sfollati interni è impressionante: almeno nove milioni di civili (su una popolazione di ventitrè) hanno lasciato le proprie case per stabilirsi in zone più sicure del Paese. Più di tre milioni di siriani, di cui il 75% è composto da donne e bambini, sono fuggiti nelle Nazioni limitrofe come Turchia, Libano, Giordania, Iraq, Egitto. Chi ha abbastanza denaro fugge verso l’Europa. Solo nella scorsa settimana sono stati centinaia i siriani approdati in Sicilia. La maggior parte di loro sono donne, giovani e bambini.
“Sahafi, ascoltami bene, voi dovete aiutarci. Devi scriverlo. La popolazione siriana non può più vivere cosi’. E’ un massacro quotidiano, abbiamo bisogno dell’Onu. Solo con l’intervento dei caschi blu si potrà fermare questa carneficina” Kasef, 35 anni, era uno chef in un grande albergo di Damasco, parla un ottimo inglese, ed è il primo a sciogliere la diffidenza cominciando a raccontare la sua storia. “Sono scappato dalla Siria all’inizio del 2013, quando ancora c’era la possibilità di poter attraversare il confine con la Giordania e da lì andare in l’Egitto. Ho venduto tutto quello che avevo e speso tutti i miei averi per arrivare fino a qui. Per dare un futuro ai miei figli. L’Europa è la mia ultima speranza, prego ogni sera Dio di darmi la forza” mi confida mentre accarezza la figlia più piccola, di appena due anni.
La maggior parte dei siriani che sbarcano in Italia hanno come obiettivo quello di arrivare nel nord Europa; Svezia, Austria, Olanda, Belgio, ossia tutti quei Paesi che hanno dato la propria disponibilità ad accettare i profughi del conflitto in Siria. Qui a Catania l’accoglienza dei migranti è però totalmente soggettiva, portata avanti da pochi volontari che agiscono in maniera individuale e senza nessun aiuto da parte delle autorità. Il Governo italiano ha infatti un atteggiamento ambiguo nei confronti dei profughi siriani. Se da una parte si tollera il passaggio all’interno del territorio nazionale, permettendo il ricongiungimento con i parenti già stanziati in Nord Europa, dall’altro li blocca arbitrariamente in luoghi privi di status giuridico, senza una reale politica e seria pianificazione riguardo la gestione dei rifugiati.
La cosa che più colpisce è che non si tratta di disperati, ma dell’elitè del Paese, fatta di commercianti, imprenditori, medici, ovvero la spina dorsale della classe media urbanizzata. Forse è anche per questo che subito c’è chi vuole discutere di politica: “La Siria è il nuovo terreno di scontro delle potenze internazionali. Da una parte gli islamisti, dall’altra Bashar, noi in mezzo. La nostra rivoluzione è stata rubata ed il regime è stato bravo a gestire la situazione”. Ad intervenire è Amir, psicologo di Homs, un viso sveglio incorniciato da una profonda cicatrice alla guancia. “Colpa dei soldati di Asad. Mi hanno bastonato fino a quando non mi hanno creduto morto. Sono scappato dalla Siria perché altrimenti sarebbero tornati per uccidermi. Nella mia stessa situazione ce ne sono a migliaia”.
Secondo una recente stima dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani le vittime accertate dall’inizio del conflitto sarebbero più di centosessanta mila, con decine di migliaia di feriti tra i civili, ed una intera generazione distrutta psicologicamente dalla guerra. Discutiamo, ed intorno a noi si infoltisce il cerchio di quelli che vogliono parlare, sfogarsi di tutto quello che hanno subito. “Sono di Yarmouk, faccio parte di una grossa e importante famiglia della città che si è ribellata ad Assad e che adesso è nella lista nera del regime. Sono scappato perché ho perso moltissimi parenti per mano del regime. O la fuga o la morte. Non avevo scelta”. Ramir è un uomo sulla quarantina, con la fronte larga e gli occhi pieni di morte. “Sono arrivato in Italia dalla Libia, dopo aver viaggiato per quarantotto ore dall’Egitto fino a Tripoli, dove mi sono imbarcato con la mia famiglia pagando millecinquecento dollari ai trafficanti. Alcuni di noi sono stati uccisi per il semplice fatto di essere siriani, perchè avevano paura fossimo spie del regime. Un mio compagno è stato prima derubato e poi trucidato proprio davanti a me. Un incubo”.
Poi noto il viso dolce di Yousef, 32 anni, ingegnere informatico di Damasco, arrivato dall’Egitto nella stessa barca di Kasem. Lo invito a raccontarmi la sua storia. “A Damasco ero il proprietario di un negozio di informatica che mi permetteva di vivere dignitosamente con mia moglie e la mia figlia di appena un anno. Poi, un giorno, i soldati del regime sono arrivati, hanno sequestrato le apparecchiature e alla fine bruciato il locale. Cosa dovevo fare? Ho venduto la casa, i gioielli, la macchina e sono scappato. Ora voglio solo andare in Svezia e ricominciare una nuova vita”. I suoi occhi sono celati dalla tristezza di aver perso tutto quello per cui aveva lottato. Abbassa lo sguardo: “La Siria ormai non esiste più”.